domenica 25 ottobre 2015




TORTA WILDBAD


 E' dalla Mitteleuropa che provengono le torte migliori. Questa, tradizionale di Bad Wildbad, non fa eccezione.
Procuratevi una teglia a cerniera, di circa 22cm di diametro (o in alternativa, un cerchio da flan), e preparatela con cura: imburratela e rivestitela con carta da forno: un disco ritagliato a misura per coprire il fondo, e una striscia per i lati. Non ci devono essere pieghe.
Il dolce consta di un fondo di biscotto, un ripieno tipo cheese-cake, una copertura di marzapane, e infine una guarnizione di cioccolato.
 Per il biscotto:
75gr farina, 60gr burro, 25gr amido di mais, 1 uovo grande, mezzo cucchiaino di lievito vanigliato.
Mescolate bene e stendete nel fondo della teglia. Cuocete in forno già caldo, 180° finchè è leggermente dorato. Lasciatelo freddare senza spostarlo dalla teglia.
Per il ripieno:
500gr di formaggio quark (tipo filadelfia), 160gr zucchero, 4 uova, 50gr cacao, 8 fogli di gelatina, 1/4l panna da montare, 1 arancio, liquore all'arancio.
Montate bene i tuorli con lo zucchero (preferibilmente con le fruste elettriche). Unite il cacao, poi, continuando a montare, aggiungete anche il formaggio, la buccia grattata dell'arancio e il suo succo (la ricetta originale prevede l'uso del limone, ma ve lo sconsiglio vivamente). Ammollate la gelatina in acqua fredda, strizzatela, scioglietela in un tegamino con poco liquore e unitela al composto usando sempre le fruste. Montate la panna e miscelatela delicatamente al resto con una spatola (non con le fruste!). Ugualmente fate con gli albumi montati a neve.
Per il montaggio:
4 cucchiai di marmellata d'arancio, poco liquore all'arancio, 250gr di marzapane.
Ammorbidite la marmellata col liquore e spennellate con questa il biscotto. Versateci sopra il ripieno e livellatelo bene. Fate solidificare per 6-8h in frigo. 

Spianate il marzapane col matterello formando un disco dello stesso diametro della torta. Per farlo aiutatevi con dello zucchero a velo. Stendetelo sulla torta quando questa è ben solidificata.
 (Nota: il marzapane si trova nei market impacchettato sottoforma di panetti. Ma se volete farlo da voi vi bastano 5': mescolate insieme 125gr di farina di mandorle e altrettanto zucchero a velo. Inumidite con un paio di cucchiai di albume d'uovo appena sbattuto. Aggiungete l'albume un poco alla volta fino ad ottenere un impasto malleabile.)
 
Togliete il cerchio apribile solo prima di guarnire.
 Guarnizione:
Cioccolato grattugiato (sopra) e lamelle di mandorle per nascondere i lati (ma queste io non le avevo...). 

FINE


 

venerdì 16 ottobre 2015



I TOZZETTI DI ALLUMIERE




Questi sono dei biscottini simili ai cantucci toscani, ma assai più ricchi. A casa usiamo farli nel periodo delle feste: sono deliziosi da soli o con la cioccolata calda. In una scatola ermetica vi dureranno a lungo.
Ingredienti: 200gr di farina, 200gr di zucchero, 2 uova piccole, 200gr di nocciole sgusciate e tostate, 20gr di burro, cioccolato amaro a pezzetti.
Stemperate il burro nella farina fregandola tra le dita, poi unite tutto il resto. Io spezzo le nocciole perchè è più facile amalgamarle, ma potete lasciarle intere. Se l'impasto fosse troppo umido aggiungete farina.
Formate dei rotoli e lucidateli con un po' di latte.



Metteteli in forno già caldo, a 180° per 20 minuti. Controllateli e, se sono ancora un po' morbidi al tatto e hanno un aspetto poco cotto, attenzione: vuol dire che sono pronti!







 

Sfornateli e lasciateli raffreddare, poi tagliateli di sbieco. 













Attendete alcune ore prima di chiuderli in una scatola, perchè devono asciugarsi e indurire.














FINE

domenica 11 ottobre 2015




EVEREST: MITO,CIMITERO E DISCARICA


Il monte Everest (Madre dell'Universo, in tibetano, Dea del cielo in nepalese),la vetta più alta del pianeta (8848m), è situato fra Tibet, Cina e Nepal. La sua forma ricorda una piramide, e non presenta eccessive difficoltà tecniche nella scalata, salvo la sua altezza.
Dice Simone Moro, famoso alpinista,: '' La scalata avviene a ritmi lenti, 50/80 metri di scalata in un'ora, si va lentamente sulla vetta, e se arriva brutto tempo lentamente si torna indietro. Oltre gli 8.000 metri l'ossigeno è quasi assente, le capacità fisiche sono annullate, il corpo umano non vive ma sopravvive. Arrivati in cima si prova un senso di piccolezza e non di onnipotenza, si vede la rotondità del globo,e fin quando il tempo è sereno è tutto gioioso,ma lassù il tempo cambia velocemente, e l'arrivo di una bufera può essere fatale. La vera "vetta" però non è la cima, ma il campo base, perché in cima sei solo a metà "strada", poi devi farti la discesa, il campo base è la finish-line".
Di fatto già a partire dai 2.500 metri di altitudine si può essere soggetti al cosiddetto mal di montagna: la bassa pressione atmosferica riduce i livelli di ossigeno nel sangue, e tutta una serie di sintomi cominciano ad apparire: cefalea, vertigini, stordimento, insonnia, vomito, ecc. Poi, oltre gli 8000 m si entra nella cosidetta Death Zone: non c’è abbastanza ossigeno per respirare. Il ritmo passa dai tipici 20-30 respiri al minuto agli 80-90, ed è talmente faticoso che si possono perdere i sensi anche soltanto cercando di tirare il fiato. Praticamente tutti gli scalatori fanno uso di bombole d’ossigeno nella Death Zone. Più si sale, più aumenta il rischio di edema polmonare o cerebrale da alta quota, vale a dire un accumulo di liquidi nei tessuti dei polmoni o del cervello, che può rivelarsi fatale. Dormire è difficile, digerire del cibo praticamente impossibile. Possono sopravvenire cecità da neve, disidratazione, disorientamento ed estremo affaticamento. A questi rischi si aggiungono gli imprevisti meteorologici: i venti avversi, le tormente, il pericolo di slavine. Le temperature rigide ghiacciano qualsiasi porzione di pelle esposta all’aria, può sopravvenire il congelamento, la formazione di bolle e in seguito la gangrena. 


Molti sono gli scalatori che hanno perso le dita delle mani o dei piedi, ma anche interi arti.




 





I primi tentativi di raggiungere la vetta iniziarono negli anni '20 del secolo scorso, ma questa fu raggiunta ufficialmente solo nel 1953 da Edmund Hillary con lo sherpa Tenzing Norgay.




 Nel corso degli anni circa 250 persone sono morte nel tentativo di riuscire nell'impresa, chi travolto da una valanga, chi schiacciato dalla caduta di blocchi di ghiaccio, altri caduti nei crepacci, altri morti per assideramento, malori, sfinimento, ferite da caduta, decisioni sbagliate dovute a stress e debolezza. E sono tutti eventi che possono capitare anche al più esperto degli scalatori.



Il 18 aprile 2014 avvenne la più grande tragedia sull'Everest: Una valanga a 5.800 metri provocò la morte di 16 sherpa mentre fissavano delle corde lungo l'itinerario. Nel 2014 morirono in totale 17 persone sull'Everest, è il singolo anno in cui sono morte più persone nella storia alpinistica dell'Everest. Un altro anno particolarmente funesto fu il 1996: 8 persone morirono assiderate dopo esser state investite da una bufera durante una spedizione mal organizzata e con problemi di incomprensione fra le guide. Sempre quell'anno  i coniugi americani Francys e Sergei Arsentiev raggiunsero la vetta stremati, e poi di notte cominciarono la discesa senza esserne più in grado. Esausti e confusi si separarono senza nemmeno accorgersene. Lui arrivò alla tenda ad 8.200 metri la mattina dopo, e solo lì si accorse che la moglie non c’era. Lei era 400 metri più su, viva ma confusa, incapace di muoversi e con gravi congelamenti.

  Il marito esausto tornò comunque indietro riuscendo a raggiungerla. Passò la notte accanto alla moglie ma la mattina era sparito, caduto nell'abisso sull'orlo del quale si trovavano. Francys fu trovata da due scalatori sudafricani. Era ancora viva, ma semicongelata. Non riuscirono a spostarla e morì poco dopo. Il suo corpo rimase lì vicino alla strada principale per raggiungere la vetta, finchè 9 anni dopo una spedizione non lo trascinò dietro una sporgenza per nasconderlo alla vista degli escursionisti.





In genere a causa delle difficoltà e dei pericoli nel trasportare a valle i corpi, molti di coloro che sono morti sulla montagna rimangono lì. Talvolta anzi, qualcuno è morto durante le spedizioni per il recupero dei cadaveri.



Anche questo 2015 verrà ricordato come uno degli anni peggiori: il terremoto che ha seminato morte e distruzione in Nepal ha ucciso almeno 22 persone al Campo Base.






 
 Le dure condizioni della Death Zone spesso impediscono di soccorrere gli alpinisti in difficoltà, perché aiutare qualcuno che è in pericolo significa mettere a rischio anche la propria vita: quindi, chi si ferma è perduto.


Scendere, rinunciare alla vetta e provare a salvare una vita, oppure continuare a salire come se nulla fosse? Per Mark Inglis e l' altra quarantina di alpinisti che si trovavano a 300 metri dalla cima dell' Everest la domanda nel 2006 ebbe solo una risposta. Nessuno si è fermò a prestare soccorso a David Sharp, un 34enne di Edimburgo che dopo essere già arrivato in cima aveva esaurito le bombole dell' ossigeno sulla via di discesa e si era accasciato esausto nella neve. Si trovava abbondantemente al di sopra degli 8.000 metri del Campo Quattro presso il Colle Sud, quindi nella Death Zone, dove il cervello si obnubila. Mark Inglis (famoso perchè quel giorno scalò la cima con due protesi al posto delle gambe) spiegò poi: ''Ho dato ordine a un mio sherpa che gli lasciasse la sua bombola dell' ossigeno. Di più non potevamo fare. Aiutandolo avremmo rischiato di morire anche noi''.  In realtà accanto al povero David Sharp passarono in tanti, di nazionalità e spedizioni diverse. qualcuno udì i flebili lamenti ma nessuno si fermò ad aiutarlo. La sua agonia durò diverse ore. L'indomani mattina era ancora vivo, semicongelato e non più in grado di parlare. Fu spostato al sole ma non servì a niente. Oggi il suo corpo (qui sotto) serve da punto di orientamento. 





 Sir Edmund Hillary, il primo conquistatore dell'Everest, rilasciò dure dichiarazioni riguardo a questa triste vicenda: ''Noi non avremmo mai lasciato morire nessuno sulla parete. Nella nostra spedizione era chiaro che per un caso del genere saremmo tornati indietro. È una questione di priorità''. 




Essendo ormai la montagna disseminata di cadaveri, anche altri corpi vengono utilizzati come punti di riferimento. “Green Boots” (scarponi verdi, qui a fianco) è il soprannome dato a uno scalatore indiano morto nel 1996, che era rimasto separato dal suo gruppo e si era riparato dagli elementi sotto una sporgenza, e lì era morto assiderato. Oggi tutti gli scalatori diretti in vetta passano di fianco al suo corpo, e lo usano per calcolare quanto manca alla cima.


 

Questi lugubri “marcatori di distanza”, fissati in pose scomposte e conservati indefinitamente dal gelo, sono talvolta fin troppo impressionanti, e le guide sherpa li spingono giù dai cigli delle rocce per nasconderli alla vista degli scalatori, facendoli cadere sul fondo di dirupi inaccessibili.





L'inflazione delle spedizioni commerciali e la difficilissima situazione ambientale sembrano aver modificato il senso morale e il codice d'onore degli scalatori. 



Un altro racconto allucinante è quello dell'alpinista Renzo Benedetti che nel 2003, a soli 30 metri dalla vetta perse la vista per un edema retinico. Praticamente cieco, solo e di notte riuscì a scendere carponi da 8800 a 8500 metri. Caduto in un crepaccio ne uscì con le proprie forze, chiese aiuto ad uno scalatore diretto alla vetta che fece finta di non vederlo e al passaggio di quattro militari si vide depredato della picozza. Questa la sua intervista:


 

Benedetti, davvero lassù subentra l’indifferenza per la vita altrui?
“E’ una questione individuale e accade solo sull’Everest e sul Cho Oyu, che sono l’ottomila più alto e quello più facile, dove salgono le spedizioni commerciali.


Nel 2003 all’Everest, a 30 metri dalla vetta sono stato colpito da edema retinico. Da un occhio non ci vedevo più da un pò, ma avevo pensato alla neve ghiacciata che mi turbinava contro la faccia. Era notte, c’era vento, vedevo solo grigio. Poi anche l’altro occhio ha ceduto ed ho perso completamente la vista. Ero sulla cresta affilatissima che dall’Hillary Step porta all’anticima. Mi sono inginocchiato e sono sceso così, con una mano sulla cresta e l’altra sulla neve, tastando le mie tracce. Ho incontrato un alpinista, un americano credo, so solo che parlava inglese. Gli ho detto che non ci vedevo più, gli ho chiesto di aiutarmi. Lui non ha risposto e mi ha evitato, ha fatto un giro largo e se n’è andato. Ho trovato anche quattro militari di una spedizione indo-nepalese che alla mia richiesta di aiuto mi hanno risposto “per te è finita qui”. Ho dato ad uno di loro la piccozza pregandolo di mettermela nello zaino e invece se l’è tenuta. Probabilmente pensava che non sarei sopravvissuto. A un certo punto sono scivolato e sono finito in un crepaccio. Per fortuna in salita lo avevo aggirato, avevo visto che si esauriva verso il bordo delle rocce, così sapevo di poterne uscire a destra. A quota 8.550 per fortuna ho incontrato uno sherpa che mi ha fatto respirare il suo ossigeno. La mia maschera era rotta. Sono rimasto con lui, poi è arrivato uno sherpa che era con Sergio Valentini e sono riuscito a scendere al Colle Sud. Da lì siamo scesi a 6.400 metri e alle 3 di notte ho aperto gli occhi scoprendo che ci vedevo di nuovo”.
Li ha rincontrati, gli alpinisti che l’avrebbero lasciata morire?
“So che l’americano ha detto di avermi visto ad un italiano che faceva parte della spedizione di Manuela Di Centa. Nessuno però è venuto a cercarmi. Al campo base, dove c’era la tenda dei militari nepalesi ho saputo che uno di loro era caduto in un crepaccio ed era morto, ma non so se è lo stesso che mi ha preso la piccozza”.
Ha ragione Hillary, dunque, ad accusare gli alpinisti di oggi di egoismo?

“Se a me capitasse una situazione del genere farei come lo sherpa che mi ha aiutato, la vita vale più di una cima. E’ stata una lezione a mie spese. Ma il mondo dell’alpinismo è sempre stato fatto di individualismi e di egoismi”. 
Renzo Benedetti è poi morto in Nepal quest'anno sotto una frana causata dal terremoto. 




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Così come Inglis è stato il primo scalatore con una menomazione così grave a raggiungere la cima dell'Everest, così tantissimi altri hanno battuto dei record. C'è stato il più giovane (un nepalese quattordicenne), il più vecchio (un ottantenne), quello diabetico insulinodipendente, il primo cieco, il più veloce (17 ore per salire e riscendere dal Campo Base), il primo senza bombole, il primo con gli sci, quello in bicicletta, quello sceso col parapendio. Tutta gente completamente assorbita dalla febbre della cima. Come le ormai centinaia di clienti delle cosiddette «spedizioni commerciali», pronti a spendere tra i 70.000 e 100.000 dollari pur di salire sulla vetta più alta della Terra. Queste le dichiarazioni rilasciate dallo scalatore professionista Reinhold Messner: “L’alpinismo d’alta quota è diventato turismo e spettacolo. Questi tour commerciali dell’Everest sono ancora pericolosi. Ma le guide e gli organizzatori dicono ai clienti, ‘Non si preoccupi, è tutto organizzato’. La via è preparata da centinaia di sherpa. Ossigeno extra è disponibile in tutti i campi, fino alla cima. Lo staff cucina per te e ti prepara il letto. I clienti si sentono sicuri e non si preoccupano dei rischi”. E' la commercializzazione dell'Everest, ormai alla portata di tutti gli sportivi, non necessariamente alpinisti. 
Nell'arco di tempo abbastanza ristretto in cui le condizioni climatiche possono -salvo sorprese- consentire la scalata, la montagna si fa affollata. Una situazione limite fu quella del 2012. Normalmente i mesi che precedono l'arrivo del monsone sono quelli in cui si concentrano i tentativi di scalata di centinaia di persone, ma quell'anno il maltempo ridusse di parecchio la ''finestra'' e gli scalatori si concentrarono tutti negli ultimi giorni disponibili prima della fine della stagione. Molti erano rimasti in attesa da giorni nei Campi Base a varie altezze, sperando che il tempo migliorasse. Il 19 di maggio nel Campo più alto alcuni gruppi dovettero attendere diverse ore a causa del sovraffollamento e a quell'altitudine il corpo si raffredda velocemente. 




 Essendoci una sola via per raggiungere la vetta ognuno deve andare alla velocità del più lento tra gli scalatori e questo crea un inceppamento di traffico enorme.  


Il collo di bottiglia si trova nella Death Zone, dove gli scalatori rallentano, anche se respirano dalle bombole di ossigeno e le temperature possono scendere a 35 gradi sotto zero. Nelle ultime poche centinaia di metri, alpinisti stanchi ed esausti possono bloccare tutta la linea. Quel giorno si formò un ingorgo di traffico con circa 200 scalatori in contemporanea, nonostante ne fossero appena morti 4 partiti nelle ore di maltempo e uccisi dallo sfinimento durante la discesa




Gli scalatori più esperti rinunciarono, ma l'alpinismo di massa ha le sue aberranti leggi di mercato e si rischia tutto per pochi minuti in cima al mondo. 

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Ogni anno anno circa 700 persone tentano la scalata. Ognuno di loro si trattiene all'incirca 2 mesi per via delle soste nei Campi Base necessarie all'acclimatazione. Questo comporta una quantità di atrezzature e bagagli che, una volta portata a termine la spedizione non si ha certo voglia di caricarsi. 




Si tratta di involucri di cibo, bombole di gas per accendere il fuoco, bombole di ossigeno e altro materiale molto più ingombrante. Per di più i quattro campi situati dai 5300 metri in su sono privi di gabinetti. Ci si limita a scavare un buco nella neve e depositare tutto lì. ''Too much poo...'' dicono gli sherpa: feci e urine a quelle temperature non si degradano e restano lì ad inquinare l'ambiente. Basterebbe portarsi appresso dei sacchetti, come si fa per i cani. Tutto ciò ha fatto sì che la montagna si trasformasse in un colossale immondezzaio e latrina. 



L'anno scorso, 2014, vennero annullate tutte le spedizioni quando ad aprile una valanga uccise 16 sherpa. Per questa ragione quest'anno si prospettava particolarmente affollato. Il governo Nepalese ha finalmente provveduto a regolamentare la questione. Anzitutto sono state organizzate spedizioni di sherpa, yak e alpinisti che hanno trasportato a valle circa 8 tonnellate di spazzatura, fra cui persino pezzi di elicottero.







  I materiali non riciclabili verranno trasformati in giochi e souvenir dalla popolazione locale. Ma un'altra cinquantina di tonnellate (secondo stime molto approssimative) ancora resta da eliminare. Inoltre, cosa ancora più importante, salire sul tetto del mondo è ora possibile solo a patto di riportare a valle almeno 8 kg di spazzatura. E’ la condizione che il governo impone per concedere i permessi necessari. Chi non si atterrà alla regola perderà la salata cauzione e incorrerà anche in sanzioni giudiziarie.


FINE



venerdì 9 ottobre 2015




TETTINE IN LIBERTA'

Durante il periodo dell'emancipazione femminile e della libertà sessuale, nei mitici ruggenti anni '70, le ragazze andavano in giro con i (piccoli) seni in libertà, che sotto i vestiti si muovevano dolcemente conservando la loro linea naturale. Il reggiseno stava diventando obsoleto, uno strumento costrittivo che ricordava troppo da vicino stecche e busti delle passate generazioni. Quelli che ancora si usavano erano comunque triangolini inconsistenti, privi di qualunque funzione di sostegno.
Mai le giovani donne di quegli anni avrebbero immaginato che nel decennio successivo sarebbero invece diventati di moda seni ben sostenuti, reggiseni a balconcino con ferretti, push-up e altri trabiccoli, per non parlare dell'inflazione della chirurgia e del silicone. Esse si illudevano infatti di essersi liberate definitivamente delle pastoie dovute alla smania femminile di piacere ai maschi anche a costo di sacrifici.
Avevano anche un'altra convinzione (probabilmente comune alle giovani generazioni di ogni tempo, ma in quegli anni ancora più radicata): di esserci solo loro, di contare solo loro, e che sarebbero rimasti in quella condizione di giovinezza e libertà per tutta la vita.
In realtà la maggior parte della popolazione era esclusa da quella moda così libera: l'abbigliamento, compreso quello maschile, era striminzito e adatto solo ai magri. Chi magro non era finiva per essere emarginato. I seni in libertà erano privilegio delle ragazze giovani. Le altre erano escluse. Ma tant'è: quale ragazza pensava mai alla possibilità che il suo corpo col passare degli anni potesse cambiare? Non si era in grado di vedere ad un palmo dal proprio naso. (Forza di gravità, chi ti conosce? Noi giovani siamo in grado di volare!)
I giornali femminili dell'epoca comunque davano precise indicazioni affinchè una donna potesse capire se faceva parte della minoranza fortunata che poteva eliminare l'odiato reggiseno e vestirsi in modo giovane e fashion, o se invece era collocabile tra la maggioranza sfigata che non aveva i requisiti.
L'esperimento consigliato in genere era il seguente: prendete un foglio di carta (talvolta era una matita), sollevate un seno con la mano, piazzate il foglio proprio sotto; poi lasciate andare il seno e vedete se il foglio di carta cade o rimane trattenuto sotto il seno (o per dirla in modo più semplice: c'è o non c'è una piega sottomammaria?). Nel primo caso potete uscire senza reggiseno, nel secondo caso no.
Dal che si evince che la libertà dalle costrizioni di certa biancheria intima non era un fatto politico, come insistevano a dire le femministe, ma una faccenda elitaria riservata alla minoranza.
Comunque, essendomi imbattuta in questa curiosa foto, vagamente raccapricciante, l'esperimento del foglio di carta mi è tornato in mente e ho voluto raccontarvelo.


domenica 4 ottobre 2015





TORTA AD ALVEARE



Questa l'ho inventata io, e ne vado abbastanza fiera. Tenete presente che non è un dolce adatto per essere servito a fine cena; meglio col tè o col caffè a colazione o a mezza sera.
La preparazione può sembrarvi lunga, ma è un dolce che si può preparare ''a puntate'', nel senso che sia la pasta che il ripieno durano alcuni giorni in frigo, e si possono preparare in giornate diverse.

Per la pasta frolla:
400gr di farina
200gr burro
200gr zucchero
2 uova
150gr farina di mandorle
sale
Impastate velocemente gli ingredienti senza lavorarli, involgete la pasta e mettetela in frigo mentre preparate il ripieno. (Può restare involta nel frigo un paio di giorni)

Per il ripieno:
180gr miele d'agrumi
350gr farina di mandorle 
buccia grattugiata di 3 arance
Scaldate il miele a fuoco basso, unite la farina di mandorle e fate ben amalgamare tenendo 2 minuti sul fuoco. Spegnete e unite la buccia d'arancia. Lasciate freddare. (Potete lasciare questa pasta di mandorle in frigo ben coperta per diversi giorni, ma in questo caso per utilizzarla dovrete intiepidirla nuovamente) 

Imburrate e infarinate una tortiera col cerchio apribile (in genere la misura standard è di 22cm).
Foderatela con la pasta frolla formando un bordo di 1cm 1/2. Rimettete in frigo e fate raffreddare per 1h o più (in questo modo la pasta non si restringerà o deformerà cuocendo).
Fate cuocere  la crosta di pasta ''a vuoto'', in forno già caldo a 180°  finchè è appena imbiondita.

Quando sarà cotta e raffreddata (attenzione: non togliete il cerchio apribile!) potrete farcirla (ma anche questa crosta potete conservarla ben sigillata per qualche giorno). Stendete bene la pasta di mandorle dentro la crosta di pasta, facendo molta attenzione a non romperla, aiutandovi con le mani inumidite. Fate indurire in frigo.

Per la copertura:
succo di 3 arance
2 bicchierini di Cointreau
gelatina in fogli q.b.
zucchero a piacere
 Filtrate accuratamente il succo delle arance attraverso un telo, senza mescolare nè spremere: lasciatelo scendere lentamente per ottenere un liquido limpido. Mescolate il succo con il liquore, zuccherate a piacere e misurate il liquido ottenuto.
Seguendo le istruzioni riportate sulla scatola sciogliete la quantità di gelatina adeguata e unitela al succo d'arancia, abbondando con la dose, per ottenere una gelatina piuttosto sostenuta.

Per completare:
succo di 1 arancio
Mentre la gelatina raffredda togliete la crostata dal frigo. 
Prendete un foglio di plastica a bolle, di quelli da imballo. Inumiditelo abbondantemente dalla parte delle bolle col succo d'arancio e bagnate anche la superficie della torta. (Mettete da parte il succo avanzato).
Stendete la plastica sulla torta e premete bene con le mani su tutta la superficie, in modo uniforme, in maniera da formare le cellette dell'alveare.
Sollevate e asportate la plastica.
Versate sull'alveare la gelatina ancora liquida, riempiendo bene tutte le cellette. Fate rassodare in frigo.

Le api (si possono preparare con settimane d'anticipo):
Qui potete lavorare di fantasia e far le api come preferite. Potete usare il cioccolato plastico, la pasta di zucchero, il marzapane (trovate le ricette sul web). Io le ho fatte così:
Per fare il corpo ho tagliato delle striscioline di buccia d'arancia candita (1cm e mezzo x 4mm) e le ho immerse nel cioccolato fondente fuso a bagnomaria. Poi le ho messe ad indurire sulla carta-forno. Con delle goccine di cioccolato ho fatto le teste. Per le righe sul corpo ho fatto una cucchiaiata di glassa con zucchero a velo inumidito con poco succo d'arancio (quello avanzato e messo da parte) e l'ho fatta scendere da un piccolo cono di carta con un forellino in cima. Ho posizionato le api sulla crostata e ho aggiunto le ali fatte con fettine di mandorle.
Solo prima di servire potete togliere il cerchio apribile.


Non fatevi scoraggiare dalla lunga spiegazione: sono tutte operazioni semplicissime!

 FINE