martedì 8 agosto 2017






STORIA DEL MAL FRANCESE


"Per quasi cinquecento anni la sifilide è stata la regina delle malattie veneree prima di essere detronizzata dall’AIDS”
(Claude Quétel)


Carlo VIII salì al trono di Francia nel 1483, a soli tredici anni e privo della benchè minima preparazione. Era piccolo e mal fatto, assai brutto di viso, con labbra grosse perennemente semiaperte e un naso aquilino spropositato. Tuttavia era molto bravo negli sport e sebbene non sembrasse molto intelligente, passò alla storia come ''l'Affabile''. Altra cosa che passò alla storia furono le sue eccezionali intemperanze sessuali.


Nel 1494 mosse col suo esercito verso l'Italia, vantando dei diritti dinastici sul Regno di Napoli. L'esercito era composto in gran parte di mercenari svizzeri, guasconi, spagnoli, italiani e fiamminghi, ma andò ingrossandosi durante il viaggio, fino a raggiungere le 60.000 unità. A seguito dell'esercito viaggiavano anche 800 donne, tra vivandiere e lavandaie autorizzate, mogli che non avevano voluto separarsi dai loro mariti, e ''puctane'' (secondo un documento dell'epoca). Queste ultime erano stimate essere circa 500.
Carlo VIII sostò fra l'altro ad Asti, ossequiato da Ludovico il Moro che lo accolse offrendogli uno stuolo di belle cortigiane milanesi con le quali al re piacque di intrattenersi. Subito dopo (si trovava ancora ad Asti) si ammalò e fu vicino a morire: una febbre altissima che durò 7 giorni, con manifestazioni cutanee tali che gli fu diagnosticato il vaiolo, dovuto, secondo i medici, al cambiamento d'aria e al clima umido (in base agli schemi ippocratici). Una forma piuttosto leggera, visto che il re superò la malattia velocemente. Probabilmente non si trattò affatto di vaiolo ma della prima manifestazione della sifilide, il che ha portato a identificare Carlo VIII come il ''paziente zero'' della successiva epidemia che si propagò in Italia. (C'è da notare che ancor oggi in francese ''vérole'' indica la sifilide, e ''petite vérole'' il vaiolo).
F. Granacci: ingresso di Carlo VIII a Firenze

Il re riprese la sua marcia e sostò anche a Pisa. Ricevuto con grandi onori, dopo aver ascoltato la messa volle pranzare con l'Operaio del Duomo (oggi si direbbe l'ingegnere costruttore) Messer Giovanni Mariani, e l'indomani ripartì verso Firenze. Di questa occasione è ancora conservata una lapide a ricordo. 
Il Mariani, poco tempo dopo, fu nominato ambasciatore a Venezia, e di lui si conservano molte lettere. In alcune di queste scopriamo che lamenta un pessimo stato di salute e richiede ripetutamente di essere sollevato dall'incarico non essendo più in grado di svolgerlo. Si tratta di un vero e proprio diario clinico che descrive un quadro di sifilide, il primo in Italia: catarro, forti dolori alle giunture e agli arti, viso gonfio, dolore alla gola con impossibilità di inghiottire, febbre notturna. Lamenta sintomi che chiama ''peste'' e ''gotta'' (forse manifestazioni di sifilide secondaria) ma infine chiama la sua malattia apertamente ''mal francioso'': siamo infatti già alla fine del 1497, il morbo si è già diffuso in Italia ed è stato collegato all'invasione di Carlo VIII.


 Probabilmente la malattia del Mariani (che lui riferisce essere iniziata dalla bocca) ebbe origine dal famoso pranzo consumato insieme al re di Francia dove una commistione di bicchieri e tazze, e un comportamento a tavola diverso da quello odierno, avevano reso possibile il contagio. Il povero Mariani dovette implorare per un anno prima di essere accontentato e poter tornare a Pisa, dove evidentemente avendo superato la fase più acuta, riprese il suo precedente lavoro.

Dopo la sosta a Pisa Carlo attraversò l'Italia, ingrossando sempre più il suo esercito, tanto che quando arrivò a Napoli, la città si arrese senza combattere. Nei mesi successivi Napoli fu teatro di ogni dissolutezza, e la diffusione della malattia divenne palese. Così gli italiani la chiamarono ''mal francese'' e i francesi ''mal napoletano''.
La trionfale spedizione francese si risolse peraltro in un insucesso grazie all'intervento spagnolo e alla costituita Lega degli Stati Italiani. Al suo rientro inglorioso
l'esercito di Carlo, che era costituito da mercenari di varia provenienza, diffuse il morbo in tutta Europa.
Carlo VIII morì poco tempo dopo, a soli 27 anni: una caduta con conseguente colpo alla testa, la perdita della parola per alcune ore, la parziale ripresa (ma sempre allettato) e infine la morte dopo altre nove ore, son cose che fanno pensare ad un ictus. Data la giovane età si è pensato ad una arterite con emorragia cerebrale per rottura di vaso a seguito di ''gomma'' luetica. 


Se sappiamo chi portò la sifilide in Italia, chi la portò ancor prima in Francia e in Spagna? 
E' ormai certo che furono i marinai di Cristoforo Colombo un paio d'anni prima: quando sbarcarono nell'isola di Hispaniola (Haiti)  nel 1492 trovarono che gli indigeni avevano dei costumi sessuali molto liberi, e ne approfittarono a man bassa. Fra la popolazione locale era però endemica una malattia a decorso benigno e a contagio per via sessuale, la quale trovò il sistema immunitario dei marinai assolutamente impreparato e inefficace. Se ne ammalarono quasi tutti molto gravemente e, al rientro a casa, il contagio dilagò.
Questa la descrizione che ne diede in quegli anni il medico veneziano Cumano:

“(…) diversi uomini d’arme e fantaccini che per il fermento degli umori avevano delle pustole su tutta la faccia e su tutto il corpo. Esse assomigliavano a dei grani di miglio, e di solito comparivano sotto il prepuzio, o sulla parte esterna o sopra il glande, accompagnate da leggero prurito.(…) Dopo pochi giorni i malati erano ridotti allo stremo dai dolori che sentivano nelle braccia, nelle gambe e nei piedi e da un’eruzione di grandi pustole che duravano un anno o più se non venivano curate.”


 La malattia aveva decorso variabile ed esiti a volte spaventosi, e colpì l'immaginario collettivo che vide in essa una sorta di punizione divina contro la libertà di costumi. A Parigi furono subito emanati dei decreti che escludevano i sifilitici dal consesso civile, al pari dei lebbrosi, pena l'impiccagione per i trasgressori. In tutta Europa a soli tre anni dalla spedizione di Colombo, cominciò a fiorire anche la letteratura medica sull'argomento, ricca dei consigli più assurdi per alleviare i sintomi o curare la malattia. Non fa meraviglia che tale letteratura fosse rivolta a curare più che altro i genitali maschili, infettati con un rapporto sessuale avuto con qualche donna la quale era vista semplicemente come il veicolo della malattia.
Fortunatamente l'evoluzione generale della malattia mutò negli anni. Già nei primi decenni del 1500 la sintomatologia delle pustole e dei dolori ossei si attenuò, permanendo però quella dell'alopecia e delle ''gomme'' (forma
zioni nodulari di volume variabile e di consistenza duro-gommosa con tendenza al rammollimento, che possono aprirsi e svuotarsi lasciando ulcere e croste).

Nel secolo dei lumi, con la sintomatologia attenuata e il decorso rallentato (si faceva in tempo a morire di qualcos'altro prima che la malattia diventasse esiziale), l'atteggiamento della società nei confronti della malattia mutò. Il contagio non risparmiava alcuna classe sociale e la sifilide per molti libertini divenne persino una specie di vanto sociale. Dalle memorie di Casanova leggiamo: 

Il male che chiamiamo francese non accorcia la vita quando lo si sa curare, lascia solo delle cicatrici, ma ci si consola facilmente quando si pensa che ce le siamo procurate con il piacere, come i soldati che si compiacciono a guardare il marchio delle loro ferite, segno della loro virtù e fonte della loro gloria." 

Nell'800 il libertinaggio passò di moda (i comportamenti non mutavano, ma non si esibivano più) e la prospettiva del contagio metteva paura. Eppure ci fu una sorta di fatalismo, come davanti ad una realtà ineluttabile. Era tutto un chiedersi ''chi ce l'ha, chi l'ha avuta, chi l'avrà''.

Inizialmente erano state varie e fantasiose le teorie riguardanti l'origine della malattia: avvelenamento dei pozzi da parte dei napoletani, contagio attraverso sangue mestruale infetto, collera divina, congiunzioni astrali e quant'altro, fino alla metà del '700, quando prese piede una teoria parassitaria.
Sempre durante l'Illuminismo si scoprì che il contagio poteva aversi anche in maniere diverse dal rapporto sessuale. La sifilide poteva essere congenita nei bambini nati da madre malata. I neonati, a loro volta potevano trasmetterla alle balie durante l'allattamento, e le balie, a loro volta, potevano trasmetterla ad altri neonati. Con i sifilomi comparsi suI mento di molti pazienti ci si rese conto che era trsmissibile attraverso i rasoi del barbiere. Infine divenne una malattia frequente nei vetrai per condivisione della canna da soffio.
Si cominciarono a suggerire elementari norme igieniche, quali i lavaggi prima e dopo il coito, l'uso di preservativi fatti con intestino di pecora, la regolamentazione dell'allattamento mercenario, il controllo della prostituzione, la fondazione di ospedali appositi e separati ecc.


Si dovette ettendere la seconda metà del '700 per una distinzione tra blenorragia e sifilide (fino ad allora confuse), e infine il 1905 per la scoperta dell'agente eziologico ''treponema pallidum''. 
La terapia della sifilide fu inizialmente il guaiaco, rivelatosi ben presto inutile. In seguito si usò fondamentalmente il mercurio, sotto forma di sublimato corrosivo e di calomelano. In realtà causava stomatiti, danni alla mucosa intestinale e gravi danni renali.
 All'inizio del '900 si scoprirono i vantaggi dell'arsenico, ma dopo aver gridato al miracolo, si vide che non proteggeva affatto dalle recidive. In seguito si scoprì che il bismuto funzionava anche meglio, e fu associato ai preparati mercuriali, mai del tutto abbandonati. Ma  qualche recidiva si aveva ugualmente. 
Infine, nel 1928 si scoprì la penicillina, il che risolse apparentemente la questione: curava definitivamente, e a qualunque stadio della malattia venisse assunta.
Ma c'è stato un imprevisto danno collaterale: l'ottimismo ha portato ad un allentarsi della vigilanza sanitaria, alla chiusura dei dispensari, ad un generale abbassarsi dell'attenzione come se si trattasse di una malattia d'altri tempi. Tutto ciò ha avuto l'ovvio risultato di un nuovo aumento dei contagi.





Per concludere, qualche appunto che riguarda il mal francese nell'arte.
Il sifilitico

Un'incisione realizzata da Albrecht D
ürer nel 1496. La malattia era stata appena descritta dai medici, ed era nel pieno della sua diffusione e nella sua forma più grave. L'opera mostra un uomo devastato da pustole e escrescenze, sotto la rappresentazione della congiunzione astrale che era avvenuta qualche anno prima (alla fine del 1484) e che era stata considerata tanto funesta che ci si convinse segnalasse l'inizio dell'epidemia.


Il pittore inglese William Hogarth (1697-1764) in una serie di 6 dipinti intitolata ''Matrimonio alla moda'' racconta come in un fotoromanzo la storia di un matrimonio combinato per questioni di interesse. Dopo alterne vicissitudini di tradimenti reciproci e vendette, la moglie si uccide. Una vena censoria e moraleggiante anima l'artista che ci mostra in uno dei dipinti il marito con una lesione al collo, simile a gomma luetica tipica della sifilide terziaria.






Nell'ultimo dipinto della serie si vede la bambina frutto del matrimonio, che viene portata ad accommiatarsi dalla mamma morta. La medesima lesione si può così osservare sul viso della piccola, affetta anche da una menomazione alla gamba e malformazioni ossee del capo, tutte cose che indicano una sifilide congenita (le colpe dei genitori che ricadono sui figli).




Rembrandt dipinse nel 1665 il ritratto del collega Gérard de Lairesse, quando questi aveva 24 anni.  Si notano i tratti tipici della sifilide congenita tardiva, che però sarebbe stata scoperta e descritta solo 200 anni dopo: "La fronte è prominente, le sporgenze frontali sono marcate, ed il cranio può essere asimmetrico. Il ponte del naso è depresso, la punta retratta. Le labbra sono spesso prominenti, e ci sono linee striate che partono dagli angoli della bocca".













 Nel dipinto di Edward Munch intitolato L'eredità, vediamo una madre dolente che tiene in grembo un bimbo inequivocabilmente affetto da sifilide congenita precoce.

 

















Gino Sandri (1892-1959) esprime la disperazione del malato in un ritratto a matita e pastello intitolato Paralisi per lue.















 FINE



Ho tratto molte cose da:
Per una storia della medicina (Università di Padova)
Storia della sifilide (a cura del dott. Antonio Semprini) 
Centrostudi GISED
La sifilide nell'arte, nella storia, nell'attualità. di Luigi valenzano



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lunedì 7 agosto 2017






GLI ALBORI DELLA MEDICINA SOCIALE




Nel 1700 il medico e scienziato Bernardino Ramazzini scrisse un trattato di medicina del lavoro: per la prima volta, ci si occupava delle malattie rpofessionali studiando insieme l'ambiente di lavoro, le tecniche utilizzate dagli operai, le sostanze manipolate, la postura, gli eventuali rimedi e persino la prevenzione. Fu per l'epoca molto innovativo.



L'idea gli era venuta un giorno che aveva  chiamato un operaio per vuotare il pozzo nero di casa. L'uomo lavorava con affanno e molto velocemente, tanto che il Ramazzini gliene domandò la ragione. L'operaio gli rispose che cercava di limitare al minimo l'esposizione ai miasmi della latrina che gli provocavano dolorose irritazioni agli occhi. Infatti nelle sue ricerche il Ramazzini scoprì in seguito che nei lavoratori che avevano svolto questo mestiere sopraggiungeva semicecità o cecità, e che finivano in gran parte a chiedere l'elemosina per le strade.
Per il suo trattato prese a fare ricerche ''sul campo'', visitando fabbriche e botteghe, in maniera da rendersi conto di persona delle condizioni dei lavoratori. Questo atteggiamento fu estremamente innovativo poichè nel '700 ancora non si dava, in medicina, la dovuta importanza all'osservazione, quanto piuttoto ci si affidava a sistemi quasi esclusivamente concettuali.
Nel suo testo il Ramazzini talvolta tenta di indicare mutamenti di postura o strumenti di protezione come rimedi e prevenzione. Bisogna tuttavia considerare che la sua è ovviamente ancora la medicina settecentesca, basata sulla teoria degli ''umori'': bile gialla, bile nera, sangue e flegma, la cui produzione eccessiva dà rispettivamente origine al temperamento collerico, melanconico, sanguigno e flemmatico, illustrati in sequenza qui sotto. All'epoca era ovviamente sconosciuta del tutto la microbiologia.


 Prestò particolare attenzione ai lavoratori dei metalli (minatori, doratori, stagnai, vetrai) e puntualmente descrisse quadri di intossicazione da mercurio e da piombo.
Per quanto riguarda i vetrai scrisse: ''Sono del parere che quella massa di vetro fuso che ondeggia nelle fornaci sia innocua (...) I danni di cui sono afflitti questi lavoratori derivano tutti dalla violenza del fuoco o dalla tossicità di alcuni minerali impiegati per la colorazione del vetro.''
Oggi ai vetrai viene riconosciuta l'esposizione alle polveri di silicio, di arsenico, ai vapori di piombo (saturnismo), all'eccessivo calore (collasso, cataratta), all'uso promiscuo di cannule per soffiatura a bocca (lue, epatite ecc.).

Specchiatore

Per i fabbri: ''I fabbri si ammalano di cisposità agli occhi, non tanto per la violenza del fuoco, che debbono continuamente fissare, quanto per i vapori di zolfo emessi dal ferro rovente che colpiscono e irritano l'occhio provocando la secrezione delle ghiandole e la cisposità delle congiuntive. Poichè il ferro contiene una grande quantità di zolfo, non deve sorprendere che, una volta riscaldato, dal ferro stesso, come anche dal carbone, si sprigionino piccole particelle che, come punte acutissome, colpiscono gli occhi provocando cispa e congiuntiviti.''
Al giorno d'oggi fra le malattie professionali del fabbro sono anche i tumori da esposizione all'amianto.


Ramazzini parlò diffusamente di tutti quei lavoratori esposti alle polveri minerali o vegetali, ossia chi lavora con gesso e calce, scalpellini, cardatori, mugnai, consigliando ambienti ampi e areati, e di rivolgersi sempre spalle al vento, di lavarsi spesso viso e bocca con acqua e aceto e infine, di abbandonare il mestiere alle prime avvisaglie di malattia polmonare.
Nell'illustrazione a fianco, un cernitore di grano.













 Inseriva in questa categoria anche i cenciaioli che, a quel tempo, a Modena dove lui viveva, erano tutti ebrei.


 Essi vendevano panni e stracci usati (e sporchi) e respiravano i cascami di stoffa, oltrechè assorbirne la sporcizia. A questo proposito dichiarò, contro i pregiudizi del tempo: “Il popolo degli ebrei, simile al quale non se ne riconosce un altro tra gli uomini in quanto non ha sede da nessuna parte eppure è ovunque, è ozioso ed operoso insieme, non ara, non erpica, non semina, tuttavia miete; questo popolo dunque, non per un motivo di razza, come si crede comunemente, e neppure per le sue particolari abitudini, quanto per i tipi di lavoro svolti è afflitto anch'esso da diverse malattie. È un errore pensare che il puzzo che gli ebrei emanano sia innato o naturale; infatti, quella stessa puzza l'hanno quelli del popolo minuto, i quali vivono in abitazioni anguste e con possibilità economiche assai ristrette; quando abitavano a Gerusalemme dove c'era abbondanza di profumi, gli ebrei erano sicuramente puliti e ben profumati.”

In un altro capitolo sono inseriti tutti i lavoratori esposti ad agenti chimici nocivi come gas e vapori. Vi sono i salinieri, i saponificatori, i tintori, i conciatori, i becchini (''che sotterrano i morti insieme agli errori dei medici'').




''I becchini, dovendo scendere in quelle buche infette, piene di cadaveri in putrefazione, per riporvi i nuovi cadaveri, sono colpiti da gravi malattie, febbri maligne, morte improvvisa, cachessia, idropsia, catarri soffocanti, ed altro. Hanno sempre un aspetto cadaverico e livido...''
Fanno parte del medesimo gruppo anche i vuotatori di fogne (come già detto, destinati alla cecità): ''Non mi sorprende che esalazioni così putride possano risultare dannose per le delicatissime strutture dell'occhio''. Si consiglia l'uso di un ''preservativo'' tipo maschera, infarcita possibilmente d'aglio per bloccare il cattivo odore che causa nausea e debolezza.




Anche gli speziali sono esposti alle sostanze nocive: ''Questi Operarij che prestano rimedij per l'altrui Sanità, se non hanno in tempo alcuno contratta malattia, confesseranno di essere stati gravemente più di una volta mal conzij per far certe preparazioni''.


Infatti nel manipolare, pestare al mortaio e macinare finemente le più varie sostanze si contaminavano attraverso la pelle e le mucose. I malesseri più immediati erano quelli dovuti alle numerose preparazioni a base d'oppio. 

Per i lavoratori del tabacco rileva: ''E' un'invenzione di questo secolo (almeno in Italia), o meglio un vizio, questa polvere di erba di Nicot; il suo uso è talmente diffuso tra le donne, gli uomini e perfino i fanciulli, che l'acquisto di quella polvere fa parte della spesa quotidiana della famiglia.

Proprio i lavoratori che manipolano il tabacco sanno bene quali danni esso provochi allo stomaco e alla testa. Fra le merci che ci arrivano, soprattutto da Livorno, vi sono delle specie di focacce composte dalle foglie della pianta suddetta, arrotolate come una corda, che gli operai snodano, aprono e mettono sotto una macina per ridurle in polvere. (...) Prima di riuscire ad assuefarsi, sono colpiti da forte mal di capo, da vertigini, nausea e da starnuti continui.''
Stiamo parlando evidentemente di tabacco da fiuto.
Una parte dell'opera del Ramazzini riguarda i lavori che costringono a particolari posture non fisiologiche, con effetti alla lunga deformanti, per esempio il lavoro del sarto o del calzolaio. Qui l'autore, diversamente che altrove, dimostra scarsa empatia per le deformazioni della colonna vertebrale di questi poveretti.   “viene da ridere nel vedere sarti e calzolai, durante le loro feste solenni, quando vanno per la città a coppia in processione, oppure quando accompagnano qualche loro morto alla sepoltura; è buffo vedere uno spettacolo di gobbi, di curvi, di zoppi che si piegano ora da una parte ora dall’altra, come se fossero stati scelti tutti uguali per una recita”.
Chiaramente oggidì non si riscontrano più tali deformazioni, anzittutto perchè sono ben noti i danni da cattiva postura, poi perchè è maggiormente diffuso l'uso degli occhiali da vista e non occorre più chinarsi tanto sul lavoro. Sono assai più frequenti le tendinopatie.

Stranamente nel capitolo riguardante le lavandaie, invece che far cenno ai problemi posturali quali la borsite prerotulea (chiamata a tutt'oggi con l'eponimo ''ginocchio della lavandaia'') o la tenosinovite al polso, il Ramazzini parla soprattutto del problema di dover stare in luoghi freddi e umidi, con le mani e i piedi bagnati, cosa che le rende cachettiche, idropiche, e rende irregolari le mestruazioni, cosa dalla quale deriva un'infinità di malattie. E poichè la medicina deve essere grata a questa categoria che favorisce una cosa fondamentale quale è l'igiene, quando stanno male le lavandaie necessitano di forti e abbondanti purganti, onde ripristinare il loro naturale colorito (!).
Per quanto riguarda i contadini, con una certa ampiezza di vedute, identifica la causa delle loro malattie con la miseria. Cita Virgilio: ''Felici gli agricoltori, se solo sapessero quanto sono fortunati'', ma aggiunge:''Sono parole che si possono riferire ai contadini di una volta, che lavoravano le terre paterne con i propri buoi; non risultano vere per i contadini di oggi, i quali con sforzi sovrumani e in condizioni di estrema indigenza, devono faticare su terre altrui. Le malattie di cui si ammalano di più (...) sono le pleuriti, le polmoniti, l'asma, le coliche, le eresipele, le malattie degli occhi, le angine, i dolori, le carie dentarie. Queste malattie riconoscono fondamentalmente due cause: l'aria e la cattiva alimentazione.
La modernità del Ramezzini ci appare evidente quando conclude ricordando che alle classiche domande al paziente, raccomandate da Ippocrate (di cosa soffre, per quale motivo, da quanti giorni, se va di corpo e cosa mangia) si deve aggiungere ''che lavoro fa?'', soprattutto se l'ammalato appartiene alla classe del popolo. Parrebbe cosa ovvia, ma nel '700 non lo era affatto.

FINE

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