LE TRE MOGLI DELLO SHAH DI PERSIA
La bella Fawzia era nata al palazzo reale Ra's al-Tīn di Alessandria d'Egitto, figlia dell'allora sultano e futuro re dell'Egitto Fu'ād I e della sua seconda moglie la sultana Nazli Sabri.
Discendente della nobile dinastia di Mehmet Alì, Fawzia crebbe insieme alle sue sorelle le Principesse Faiza, Faika e Fathiya e al fratello Fārūq, erede al trono dell'Egitto e futuro sovrano.
La Principessa dell'Egitto sposò il giovanissimo e innamoratissimo Principe Ereditario d'Iran, Mohammad Reza Pahlavi, al Cairo il 16 marzo del 1939. In questa foto, che mostra il matrimonio, la bellissima sposa indossa uno splendido abito di linea scivolata, nel tipico stile anni ’30.
Dopo la luna di miele, la cerimonia nuziale venne ripetuta a Teheran.
Due anni più tardi, il principe Mohamed Reza grazie all'esilio del padre (voluto dal governo britannico) salì al trono del pavone (chiamato così per la curiosa forma a coda di pavone del trono imperiale dell'Iran, in oro massiccio e portato a Teheran dagli imperatori mongoli) per essere quindi incoronato imperatore dell'Iran. Fawzia, in occasione della sua incoronazione a regina, bella come un'attrice di Hollywood, apparve sulla copertina di Life, il noto giornale americano, del 21 settembre 1942, incantando con il suo fascino migliaia di persone in tutto il mondo. Fotografata in quell'occasione da Cecil Beaton, il fotografo la descrisse come una "Venere Orientale, dall'ovale del volto perfetto, la carnagione pallida e gli occhi blu".
Il matrimonio con Pahlavi non fu un successo. Dopo la nascita dalla coppia di una figlia femmina, la principessa Shahnaz Pahlavi, la regina Fawzia (il titolo di imperatrice non era ancora in uso allora in Iran) ottenne la separazione legale dal marito da parte del governo egiziano nel 1945, e in seguito tornò al Cairo. Questa separazione non venne riconosciuta dal governo iraniano, ma infine, il divorzio venne ottenuto e accettato anche in Iran il 17 novembre del 1948, e con la sua rinuncia alla corona iraniana, Fawzia riprese il suo titolo di principessa reale d'Egitto. Una delle clausole del divorzio fu quella di far rimanere la figlia in Iran, per essere cresciuta con il padre. Nell'annuncio pubblico del divorzio si affermò che "il clima persiano aveva messo in pericolo la salute della regina Fawzia, e che quindi fu concordato dal Re dell'Egitto che la sorella divorziasse". In un'altra dichiarazione ufficiale lo scià di Persia (Pahlavi) dichiarò che lo scioglimento del matrimonio "non avrebbe influito negativamente sui buoni rapporti di amicizia tra l'Egitto e l'Iran.
Il 28 marzo del 1949, la principessa Fawzia sposò il Colonnello Ismāʿīl Ḥusayn Shīrīn Bey (1919-1994), un lontano cugino e al tempo ministro della guerra e della marina. Dalla coppia nacquero due figli: Nadia (1950) e Husayn (1955, con lei nella foto sotto).
In seguito al colpo di stato attuato dal colonnello Nasser nel 1952, e al seguente crollo della monarchia, la principessa Fawzia fu esiliata insieme al fratello e a tutta la famiglia reale dall'Egitto. Essa trovò rifugio in Svizzera dove risiedette definitivamente. Fawzia è morta nel 2013 a 91 anni, ad Alessandria d’Egitto.
Sorāyā
Esfandiyāri Bakhtiyāri Isfahan, 22 giugno 1932 – Parigi, 25 ottobre
2001) è stata la seconda moglie di Mohammad Reza Pahlavi. Era figlia di
Khalil Esfandiari Bakhtiyari, un importante membro della tribù dei
Bakhtiyari (Farsan) e ambasciatore d'Iran nella Repubblica Federale
Tedesca. La madre, Eva Karl, era un'ebrea tedesca di origini russe. Il 12
febbraio 1951, all'età di 19 anni, Soraya (donna molto bella per i
canoni dell'epoca, con una notevole somiglianza con Ava Gardner), sposò
lo Scià a Teheran. Lo Scià aveva divorziato dalla prima moglie Fawzia,
sorella di Faruk re d’Egitto, e il primo ministro persiano, Mossadeq,
gli mostrò un album di fotografie delle possibili nuove spose. Secondo
altre versioni, fu Shams, sorella dello Scià, a mostrargli la fotografia
della ragazza che aveva conosciuto a Parigi. Comunque sia, la scelta
cadde su Soraya, e il matrimonio fu combinato. . Soraya era stata educata
in collegi svizzeri come si conveniva alle figlie dell'alta società. A
poco più di 18 anni Raya, così la chiamavano da bambina, accettò a
malincuore la sua sorte di sposa dinastica, vedendo sfumare il miraggio
di Hollywood, ma non appena si trovò di fronte allo scià si innamorò
all' istante. Il giorno dopo fu annunciato il fidanzamento.
Le nozze furono cariche di oscuri presagi. Il 12 febbraio del 1951 la quasi diciannovenne Soraya sposò il trentaduenne Muhammad Reza Pahlavi. Lei era reduce da una febbre tifoidea. Convalescente, svenne tre volte sotto la zavorra dello sfarzosissimo abito, un deliro di trine, balze, tulle e seimila diamanti, a firma Dior, del peso di venti chili. Dopo la cerimonia fu lo scià a incaricare una dama di corte di dare un colpo di forbici allo strascico.
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Il matrimonio combinato si rivelò un matrimonio d’amore, i due si amarono appassionatamente anche se, per questioni di etichetta, si davano del lei anche nell’intimità, quando si leggevano poesie: lei gli declamava Verlaine in francese e lui rispondeva con Omar Khayyam.Nel 1953 la famiglia reale dovette fuggire a Roma durante il governo del primo ministro Mossadeq, ma lei continuò a essere la compagna fedele, l'amante premurosa, la donna consolatrice. Il primo ministro Mossadeq aveva esautorato lo scià e aveva nazionalizzato il petrolio persiano, togliendone il monopolio alle compagnie inglesi. Ne seguirono disordini, in seguito ad una sollevazione popolare, e il 16 agosto 1953 la coppia era stata costretta alla fuga.
A Roma, dove alloggiavano al quarto piano dell’hotel Excelsior assediati dai fotografi, nel corso di un’intervista lo Scià proclamò di avere due fedi “il Corano e Soraya”. Rientrarono in Iran il 22 agosto, quando Mossadeq fu arrestato dal generale Zahedi.
Ma i figli non arrivavano e per Soraya iniziò la peregrinazione tra i luminari mondiali. Anche se la Persia non era il regno incantato delle favole, anche se la vana attesa di un erede tramutò quei sette anni in un incubo, lei, comunque, amava il suo Scià. Soraya si sottopose a cure lunghe e inconcludenti, mentre annotava sul suo diario: "Lo scià non è mai stato così appassionato e i suoi abbracci più focosi". Nel palazzo imperiale di Etchessassi - da lei, che lo definirà "trappola per topi", riarredato all' occidentale - l'imperatrice riceveva dai sudditi centinaia di talismani per il suo grembo inadempiente: amuleti, miniature con versetti del Corano, flaconi di unguento magico. Tutto inutile. Secondo quanto detto e scritto da Soraya, lei non aveva alcuna imperfezione fisica, semplicemente i figli non arrivavano, e consiglieri, parenti e ministri diventavano impazienti. Per non ripudiarla lo scià tentò due strade. La prima era quella di designare erede al trono il fratello minore, Alì, ma questi morì in un incidente aereo. L' altra strada era quello che il diritto sciita chiama "sighè": un matrimonio a tempo con una donna che lo scià avrebbe ripudiato nell'istante stesso in cui lo avesse reso padre di un figlio maschio. Soraya, nata persiana ma cresciuta europea, rifiutò questo compromesso umiliante. "Il mio cuore si svuotò del suo sangue: come poteva propormi una cosa del genere?". Sarebbe stata un'umiliazione troppo cocente per l' imperatrice cresciuta in Europa. Fu lei che prese l'iniziativa e nel febbraio del '58, a sette anni esatti dalle nozze, tornò in Europa dai genitori, lasciando lo scià libero di prendere la sua decisione. Il 14 marzo lo Scià diede al mondo l’annuncio del ripudio. Apparve visibilmente affranto, commosso, quasi piangente e la chiamò “sposa adorata”. Soraya tornò libera con il titolo di principessa imperiale, doni da mille e una notte e un ricchissimo appannaggio che, però, per contratto avrebbe perso se fosse passata a nuove nozze. Con lo scià pianse l'Iran. I rotocalchi coniarono per Soraya l'etichetta di "principessa dagli occhi tristi" che le rimarrà incollata addosso fino alla morte (nonostante lei spesso, nelle interviste degli anni maturi, ripeterà: "Sono una donna soddisfatta").
Ritratta in abiti eleganti e con gioielli favolosi, entrò a far parte della flora, o fauna, della dolce vita romana e internazionale.
Venticinquenne, abitava in una villa sull’Appia Antica o a Parigi, l’estate era all’Argentario, non mancava ad una festa, incominciò la girandola degli amori, o flirt. Tra i più chiacchierati il principe Raimondo Orsini, Gunther Sachs ex di Brigitte Bardot e di qualche altra, l’attore Maximilian Schell, il banchiere Antonio Munoz, Thurn und Taxis ecc.
Fu un personaggio coccolato, nel ristorante romano che frequentava con maggiore assiduità le fecero fare un set di posate in oro massiccio, le è stata dedicata una rosa. Voleva fare del cinema? Ecco che il produttore Dino De Laurentiis le fece cucire su misura una pellicola e nel 1964 uscì I Tre Volti, film in tre episodi interpretati tutti da lei: nel primo, Il Provino, diretto da Antonioni, registra appunto il provino dell’aspirante attrice Soraya; il secondo, Gli Amanti Celebri diretto da Bolognini, racconta di un triangolo sentimentale in via d’estinzione tra personaggi del jet-set; il terzo, Latin Lover diretto da Franco Indovina, con Alberto Sordi, racconta di uno stagionato playboy a pagamento.
Fu un fiasco colossale, Soraya ha l’espressività di un ghiacciolo: i tre volti sono uno solo, immobile. Va bene che nel contratto aveva posto la clausola “né abbracci né baci sulla bocca”, ma non c’è comunicativa nella sua recitazione. È un monumento alla sua bellezza, fredda e rigida come una statua. Un giallo accompagna questo film: tutte le copie stampate del film spariscono in breve dalla circolazione e, secondo Soraya, fu lo Scià a commissionare il furto, poiché non gradiva che l’ex moglie seguisse la carriera d’attrice, a cui lei prestò solo il viso austero e dolente, il richiamo di un nome, la leggenda della regina ripudiata. Era il 1965, uno dei tre registi in quell' impresa sbagliata, Franco Indovina, per un capriccio del destino, rappresentò per Soraya la rinascita dell'amore.
E durò fino a quando, nel '72, nel disastro aereo di Punta Raisi, il destino le portò via anche quel compagno. Al momento dell'incidente lei si trovava in Germania. Un presentimento le aveva suggerito di consigliare al suo compagno di non andare. Tutto inutile. L'impero della tristezza riprendeva il sopravvento, la sovrana infelice doveva restare infelice a vita. Dicono che anche Farah Diba, la ragazza che aveva preso il suo posto presso lo Scià, la chiamò per dirle tutta la commozione che lei e il marito provavano per lei. Ma che cosa poteva valere questo messaggio per una che perdeva per la seconda volta in così poco tempo l'uomo amato? Condannata a essere bella sola e senza felicità, Soraya se ne andò a Parigi. Aveva ricevuto molti omaggi, dovunque andasse tutti si ricordavano di lei. Ma forse era lei che non voleva più ricordare. Il passato l'aveva troppo ferita.
Come estremo regolamento dei conti scrisse nel 1991 un libro, pubblicato in Francia, Il Palazzo delle Solitudini, cronistoria sentimentale dei suoi anni da imperatrice, ripudiata come Giuseppina da Napoleone: nonostante il matrimonio combinato fosse sfociato in una grande passione, la sua vita a palazzo era stata molto difficile e faticosa, a partire dalla lontananza continua del marito, fino alla generale condizione che soffriva in quanto donna. La principessa era vittima di una discriminazione ben lontana dallo stile di vita che aveva vissuto in Europa, dove aveva sognato di fare l'attrice. A complicare la situazione, vi era la notevole pressione che subiva dalla famiglia reale, ansiosa di veder assicurato un erede al trono.
Dopo la morte di Indovina Soraya trascorse il resto della sua vita girovagando per l'Europa soggiornando in incognito spesso anche a Taormina e partecipando ad alcuni eventi mondani (festival del cinema in particolare). Nonostante fosse ormai una vera diva del jet-set, era diventata celebre per la sua depressione.
Con lo sfiorire della bellezza, neppure i ritocchi servirono più a nascondere la faccia gonfia, l’aria sperduta, il notevole peso acquistato, il tutto dovuto ai molti eccessi etilici noti a tutti. Soraya si ritirò a vita privata nel lussuoso appartamento parigino di Avenue Montaigne, finché una mattina venne trovata morta dall’amica e dama di compagnia. Aveva 69 anni. Nonostante il referto parlasse di morte naturale, fu evidente per tutti che si trattò di farmaci e alcool assunti volontariamente. Venne seppellita a Monaco. I suoi beni furono venduti ad un'asta a Parigi. Tra questi anche il suo abito da sposa, creato da Christian Dior, valutato 1,2 milioni di dollari.
La vita di Soraya ha ispirato romanzi e anche canzoni, come Je Veux Pleurer Comme Soraya (Voglio piangere come Soraya) di Françoise Mallet-Jorris e "L'amore ha i tuoi occhi", struggente motivo eseguito in italiano da Bruno Filippini.
All'epoca la maggior parte degli studenti iraniani che studiava all'estero lo faceva tramite sovvenzioni statali. Perciò, quando lo Scià Mohammad Reza Pahlavi, come capo di Stato, faceva visite ufficiali all'estero, voleva incontrare la rappresentanza dei migliori studenti iraniani. Fu durante un incontro nel 1959 presso l'Ambasciata Iraniana a Parigi, che Farah Diba fu presentata a Mohammad Reza Pahlavi. Era l’anno successivo al ripudio di Soraya.
Dopo il ritorno a Teheran nell'estate del 1959 iniziò il corteggiamento tra lo Scià e Farah Diba. L'ex imperatrice racconta nella sua autobiografia come nacque l' amore con Reza Pahlevi: dopo essersi conosciuti all' ambasciata iraniana a Parigi, arrivarono gli inviti a Palazzo e una sera, dopo averle parlato delle due prime mogli, Fawzia d' Egitto e Soraya, «tacque, mi prese la mano e mi guardò negli occhi: "Accetti di diventare mia moglie? - Sì". Risposi di sì perché non c'era da riflettere, perché non avevo riserve. Era sì, lo amavo, ero pronta a seguirlo». Poi lo Scià aggiunse: «Regina, avrai molte responsabilità nei confronti del popolo iraniano». La coppia annunciò il fidanzamento il 23 novembre 1959. Il matrimonio segui dopo poco.
La sposa portava un abito di Yves Saint Laurent, sfarzoso ma rigido.
Dal matrimonio nacquero quattro figli: il Principe ereditario Ciro Reza Pahlavi (30 ottobre 1960), la Principessa Farahnaz Pahlavi (12 marzo 1963), il Principe Alì Reza Pahlavi (28 aprile 1966 - 4 gennaio 2011), la Principessa Leila Pahlavi (27 marzo 1970 - 10 giugno 2001)
Nel 1967 fu consacrata ’shabanou' ossia imperatrice, con una fastosa e sfarzosa cerimonia trasmessa in mondovisione nel 1967. La ’shabanou' indossava una corona tempestata di migliaia di pietre preziose, un mantello, con coda, interamente ricamato a mano con perle, rubini, zaffiri, smeraldi. Accanto, l’erede al trono Ciro Pahlavi, 7 anni.
L'imperatrice fu attiva nel campo dell'arte e della cultura. Diede diversi importanti contributi per rivitalizzare la scena culturale contemporanea dell'Iran ed è stata determinata nel creare diversi centri culturali e istituzioni, tra cui l'Istituto per lo sviluppo intellettuale dei bambini e dei giovani adulti (IIDCYA), il Museo di Arte Contemporanea di Teheran, e molto altro ancora.
Lo scià condusse una politica nettamente filo-occidentale, cercando, sul piano interno, di promuovere una modernizzazione del paese, senza peraltro rinunciare alla rivalutazione retorica del passato achemenide.
Nel corso degli anni Settanta accentuò il suo autoritarismo, represse ogni opposizione ed esautorò il parlamento; la congiunta opposizione delle forze di sinistra, di quelle liberali e degli ambienti musulmani sciiti tradizionalisti trovò ampio consenso nelle masse e non ci volle molto perché la Rivoluzione islamica avesse l'effetto desiderato dagli ayatollah, abbattendo la monarchia che era la forma istituzionale che governava l'Iran ormai da quasi 2000 anni ininterrottamente. L'imperatrice accompagnò il marito, seguendolo in esilio il 16 gennaio del 1979 .
Dopo varî spostamenti (Egitto, Marocco, America Centrale) ottennero ospitalità negli Stati Uniti, il che suscitò durissime reazioni iraniane (tra le quali il sequestro del personale dell'ambasciata statunitense da parte di studenti islamici); lasciati gli USA tornarono infine in Egitto dove lo scià morì.
Alcuni anni dopo, l'ex sovrana acquistò una casa a Greenwich, in Connecticut, dove visse sino alla morte della figlia, la principessa Leila. In seguito Farah si trasferì a Potomac, nel Maryland, per stare vicina al figlio, il principe Reza, e ai suoi nipoti. Ora l'ex imperatrice divide il suo tempo tra Washington, New York, Parigi e il Cairo, dove è proprietaria di un palazzo. Farah ancora oggi si batte per cercare di riportare la libertà in Iran, cercando di "cancellare il regime degli Ayatollah".
Nel 2001, in giugno, la principessa Leila venne trovata morta nel suo appartamento di Londra. Il decesso, le cui cause restano misteriose, avvenne «dopo un lungo periodo di depressione». La morte venne annunciata dalla madre, l'ex imperatrice Farah Diba: «Il tempo non ha curato le sue ferite. Finita in esilio quando aveva 9 anni, lei non è riuscita a superare la morte del padre, al quale era particolarmente vicina». Chiaramente un suicidio, con un cocktail di farmaci.
Un nuovo tragico lutto colpì nel 2011 la dinastia Pahlavi,: Alireza, 44 anni, il secondogenito di Mohammad Reza Pahlavi e Farah Diba, si tolse la vita a Boston con una pistola, «turbato dai mali che affliggono la sua amata terra», ha scritto il fratello Reza Ciro Pahlavi annunciandone la morte. «Come milioni di giovani iraniani, Alireza era profondamente turbato dai mali che affliggono la sua amata terra, così come dal peso di aver perso un padre e una sorella in giovane età», recita il comunicato del fratello.
Nel 2003 scrisse un libro sul suo matrimonio intitolato La mia vita con lo Scià, che è stato un best-seller in Europa con ampia eco mediatica.
Nel 2008 è stata protagonista del film documentario The Queen and I della regista iraniana Nahid Persson.
Nel 2008 è stata protagonista del film documentario The Queen and I della regista iraniana Nahid Persson.
Nel 2009, a settant'anni, ha consentito ad apparire in televisione su France 3 proprio in coincidenza con i trent'anni del cambiamento di regime nei palazzi di Teheran, dallo scià Reza Pahlavi all'attuale sistema politico-religioso, imperniato sugli esponenti sciiti. La tesi di Farah Diba è molto semplice: lo scomparso scià iraniano aveva in mente un piano di modernizzazione e di rilancio economico del proprio paese. Un progetto a cui stava attivamente lavorando e di cui l'insieme della popolazione iraniana avrebbe ampiamente beneficiato se il corso della storia fosse andato nel senso auspicato dall'allora famiglia imperiale. Farah Diba non vuol discutere delle accuse di autoritarismo che sono state mosse a Reza Pahlavi prima dell'insurrezione del 1978-79, che vide in primissimo piano l'ayatollah Khomeini. Per lei l'importante è ricordare il ruolo modernizzatore, legato alla figura del suo scomparso marito.
FINE
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